Il fenomeno del personal branding - SOS Digital PRIl fenomeno del personal branding: luci e ombre dell'autopromozione nell'era digitale

Il Personal Branding, l’idea di costruire una propria immagine pubblica non è certo una novità dell’era digitale. Come evidenziato dalla scrittrice Tara Isabella Burton nel suo libro “Self-Made: Creating Our Identities from Da Vinci to Kardashian”, già in passato alcuni personaggi storici hanno saputo manipolare e plasmare la percezione che gli altri avevano di loro, in un processo che oggi definiremmo personal branding. Da Leonardo Da Vinci a Benjamin Franklin, da Oscar Wilde a Coco Chanel, molte figure iconiche hanno saputo creare un’aura di fascino e mistero intorno a sé, contribuendo ad alimentare la propria fama e il proprio successo.

Leonardo, per esempio, era noto per il suo stile eccentrico e la sua personalità carismatica, che gli permettevano di affascinare mecenati e committenti. Benjamin Franklin, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, ha costruito la sua reputazione come scienziato, inventore e statista anche grazie a un’attenta cura della propria immagine pubblica, presentandosi come un uomo virtuoso e integerrimo. Oscar Wilde, con il suo aspetto provocatorio e le sue arguzie pungenti, ha fatto della propria vita un’opera d’arte, diventando un’icona della cultura popolare ancora prima che per la sua produzione letteraria. Coco Chanel ha rivoluzionato il mondo della moda non solo con le sue creazioni innovative, ma anche con il suo stile di vita anticonformista e la sua immagine di donna emancipata.

Questi esempi dimostrano che il personal branding non è un’invenzione recente, ma affonda le radici in una lunga tradizione di auto-promozione e costruzione della propria identità pubblica. Tuttavia, è stato il guru del management Tom Peters a fine anni ’90 a esortare tutti a diventare “imprenditori di sé stessi”, come evidenziato nel suo iconico articolo “The Brand Called You”. Un’idea futuristica per l’epoca, che vedeva ancora la maggior parte delle persone legate a un’idea di carriera lineare all’interno della stessa azienda. Il concetto di personal branding proposto da Peters appariva quasi rivoluzionario, ma avrebbe portato i suoi frutti nei decenni successivi, grazie alla diffusione capillare di internet e dei social media.

Peters sosteneva che in un mondo in rapido cambiamento, dove le aziende non potevano più garantire un “posto fisso per la vita”, ognuno dovesse assumersi la responsabilità di gestire la propria carriera come un marchio. Questo significava identificare i propri punti di forza, le proprie passioni e i propri valori, per poi comunicarli in modo efficace al mondo esterno. L’obiettivo era differenziarsi dalla concorrenza, posizionandosi come un “prodotto” unico e desiderabile sul mercato del lavoro. Un approccio che può apparire cinico e mercificante, ma che rifletteva la crescente precarizzazione e flessibilità del mondo del lavoro.

È soprattutto con la crescita esplosiva di piattaforme social come Facebook, Twitter e LinkedIn, successivamente Instagram, in concomitanza con la crisi economica del 2007-2008, che la cura ossessiva della propria immagine online è diventata un’esigenza imprescindibile per molti, nel lavoro e non solo. La possibilità di raggiungere potenzialmente un vasto pubblico ha spinto professionisti di ogni settore a investire tempo e risorse per affermare la propria presenza digitale. La retorica del personal branding è dilagata, alimentata da un’infinità di articoli, corsi e seminari con consigli su come ottimizzare il proprio profilo, come creare contenuti accattivanti, come aumentare follower e visibilità.

I social media hanno democratizzato l’accesso agli strumenti di auto-promozione, permettendo a chiunque di costruirsi un seguito e una reputazione online. Non serve più essere una celebrità o un personaggio pubblico per avere una propria “fanbase”. Chiunque può diventare un opinion-leader, un influencer, per utilizzare il termine moderno, nel proprio settore di nicchia, condividendo le proprie esperienze, competenze e opinioni. Questo ha creato nuove opportunità per freelance, imprenditori e professionisti di ogni tipo, che possono usare i social come vetrina per farsi conoscere e attrarre clienti.

Allo stesso tempo, però, la facilità di accesso al proprio “quarto d’ora di celebrità” ha generato una competizione spietata per l’attenzione degli utenti. In un flusso continuo di contenuti che si susseguono a ritmo frenetico, emerge chi riesce a distinguersi per originalità, creatività e capacità di engagement. La pressione a produrre costantemente materiale interessante può essere logorante, soprattutto quando si tratta di condividere aspetti della propria vita personale. Il confine tra sfera privata e pubblica diventa sempre più sfumato, con il rischio di “mercificare” anche i momenti più intimi e autentici.

Per le nuove generazioni, in particolare la Gen Z cresciuta a “pane e social”, l’autopromozione è ormai considerata un aspetto fondamentale per il successo professionale. I nativi digitali danno per scontato che la propria reputazione online sia il biglietto da visita per ottenere opportunità lavorative, contatti, clienti. In un mercato del lavoro sempre più competitivo e fluido, il personal branding è visto come una competenza irrinunciabile per emergere e affermarsi.

Molti giovani vedono i social media non solo come una vetrina, ma come una vera e propria seconda pelle, un’estensione naturale della propria identità. Condividere costantemente pensieri, emozioni ed esperienze fa parte del loro modo di relazionarsi al mondo. I contenuti che producono diventano un diario in tempo reale, un mosaico di frammenti che compongono la loro storia personale. Questo approccio può apparire narcisistico e superficiale alle generazioni più mature, ma per i giovani è semplicemente il modo “normale” di esprimersi e connettersi con gli altri.

Tuttavia, l’esposizione costante della propria immagine sui social può avere anche risvolti problematici. La ricerca ossessiva di like e approvazione può generare ansia, insicurezza e senso di inadeguatezza, soprattutto in una fase delicata come l’adolescenza. Il confronto con modelli irraggiungibili di perfezione estetica e successo può alimentare frustrazione e auto-svalutazione. Inoltre, la traccia digitale lasciata online può avere ripercussioni sulla propria reputazione futura, sia in ambito lavorativo che personale. Contenuti imbarazzanti o controversi pubblicati in giovane età possono riemergere anni dopo, compromettendo opportunità e relazioni.

Negli ultimi tempi si stanno evidenziando sempre di più le criticità di un approccio eccessivamente incentrato sul personal branding. Trasformarsi in un brand significa infatti ridursi a prodotti da valutare in base a metriche quantitative come like, follower e visualizzazioni, piuttosto che persone con cui entrare realmente in connessione. Quando ogni aspetto della nostra vita diventa “contenuto” da condividere e monetizzare, il confine tra dimensione personale e professionale diventa sempre più labile. Con il rischio di sacrificare autenticità e benessere mentale sull’altare della costante auto-promozione.

Come evidenziato in diversi studi l’ossessione per il personal branding può portare a un appiattimento delle relazioni umane e a un continuo senso di ansia da prestazione. Quando l’imperativo è mostrarsi sempre al massimo, in una versione idealizzata di sé, diventa difficile accettare anche la normale fragilità e imperfezioni che caratterizzano ogni individuo. Lo scarto tra immagine digitale e realtà può generare frustrazione, senso di inadeguatezza, paura di essere “scoperti” come impostori.

Alcuni esperti avvertono che l’eccessiva identificazione con il proprio “brand” può portare a una sorta di scissione interiore, in cui la persona fatica a distinguere tra il suo sé autentico e la sua immagine pubblica. Questo può generare un costante stato di ansia e auto-monitoraggio, in cui ogni azione e pensiero viene filtrato in base a come potrebbe essere percepito dal proprio pubblico. In casi estremi, può sfociare in veri e propri disturbi d’identità, in cui l’individuo perde il contatto con il proprio nucleo più profondo.

Un altro aspetto critico riguarda l‘effetto “camera echo” generato dagli algoritmi dei social media. Per massimizzare l’engagement, le piattaforme tendono a mostrarci contenuti in linea con i nostri interessi e le nostre opinioni, creando bolle di conferma in cui siamo esposti solo a idee che rinforzano la nostra visione del mondo. Questo può portare a una polarizzazione del dibattito e a una radicalizzazione delle posizioni, rendendo difficile il confronto con prospettive diverse. In un contesto in cui ognuno è impegnato a promuovere il proprio brand, c’è il rischio di perdere la capacità di ascolto e di dialogo costruttivo.

In questo contesto, emerge sempre di più l’esigenza di andare oltre la patina superficiale dell’autopromozione, per valorizzare relazioni, competenze e contributi reali. Anche se il personal branding rimane uno strumento utile, va utilizzato con consapevolezza e moderazione, senza perdere di vista il proprio scopo e i propri valori più autentici.

Alcuni suggeriscono di passare dal concetto di personal branding a quello di “personal storytelling“, ovvero la capacità di raccontare la propria storia in modo coinvolgente e autentico. Non si tratta di costruire un’immagine artificiale, ma di condividere il proprio percorso di vita, le proprie passioni e i propri valori in modo trasparente e umano. L’obiettivo non è piacere a tutti, ma trovare le persone che possano realmente connettersi con la nostra visione e il nostro messaggio. Questo approccio richiede coraggio, vulnerabilità e la disponibilità a mostrare anche i propri lati più imperfetti.

Un’altra tendenza emergente è quella della “reputation economy“, ovvero un sistema in cui il valore di un individuo non si misura solo in base alla sua popolarità online, ma anche alla sua credibilità, integrità e impatto positivo nella comunità. In un mondo sempre più interconnesso, la reputazione diventa una valuta preziosa, che si costruisce nel tempo attraverso azioni coerenti e relazioni di fiducia. Non basta apparire, bisogna essere in grado di mantenere le promesse e generare valore reale per gli altri.

In definitiva, il fenomeno del personal branding ha assunto sfumature controverse nell’era dei social media. Se da un lato può offrire opportunità di visibilità e realizzazione professionale, dall’altro rischia di generare una costante pressione a mettere in scena una versione “filtrata” di sé. Sta a ciascuno trovare un equilibrio tra istanze di auto-promozione e la tutela del proprio benessere, ricordandosi che il valore di una persona non si misura solo dalla sua immagine digitale.

Al di là dei like e dei follower, contano soprattutto le nostre azioni concrete, la qualità delle relazioni che sappiamo intessere, online e offline, e l’impatto positivo che possiamo avere sulla nostra comunità. Solo così il personal branding può esprimere una funzione costruttiva, aiutandoci a portare alla luce il nostro potenziale senza alienarci dalla nostra umanità più vera.

La sfida per il futuro sarà trovare un modo più equilibrato e sostenibile di gestire la propria presenza online, che permetta di valorizzare i talenti e le storie individuali senza cadere nella trappola dell’auto-mercificazione. Servirà una maggiore consapevolezza dei meccanismi e degli effetti dei social media, unita a una rinnovata attenzione per la cura di sé e delle relazioni autentiche.

Forse il vero “brand” da coltivare è quello della nostra umanità condivisa, fatta di aspirazioni e fragilità, di unicità e interdipendenza. Solo riconoscendoci gli uni negli altri, al di là delle maschere digitali, potremo costruire una società più empatica e inclusiva, in cui il successo sia misurato non solo in termini di visibilità individuale, ma di benessere collettivo.

 

Enzo Rimedio

Di Enzo Rimedio

Esperto in comunicazione digitale, giornalista, associato FERPI (Federazione Relazioni Pubbliche Italiana), PRSA (Public Relations Society of America), AISM (Associazione Italiana Sviluppo Marketing), SIAE (Società Italiana degli Autori ed Editori). Autore del libro “Digital PR”. Mi occupo di consulenza strategica e di innovazione, digital PR, digital marketing, media relations, media intelligence, web reputation, digital content. Racconto le mie esperienze nel blog SOS Digital PR. Sono responsabile della comunicazione digitale di Miss Italia e ricopro ruoli analoghi per diverse altre aziende. Ho fondato Digitalk PR, studio specializzato in digital communication, e sono partner di alcune agenzie di comunicazione e media intelligence. Insegno, e ho insegnato, in scuole di specializzazione e università. Sono personal consultant di blogger e social influencer. Negli ultimi anni ho presenziato in qualità di speaker ai seguenti eventi: Social Media Summit, Digital Innovation Days, IAB Forum, SMAU, Forum della Comunicazione, Deegito, Social Media Strategies, FERPI conference, Assemblea Annuale ANCI.