Opinion Makers ha pubblicato una mia intervista. Non essendo più disponibile il link, la ripubblico qui.
Lei, che si occupa specificamente di digital pr e media intelligence, può sinteticamente spiegarci il panorama attuale della scena dei media, con particolare riferimento ai rapporti tra media tradizionali e media digitali?
I media digitali esistono da oltre 25 anni, il loro inizio è avvenuto contestualmente con il web, prima con i siti di informazione, poi con i blog, oggi con i social. Così, da allora, il modo di fare notizia è estremamente cambiato. Nei ringraziamenti dei lettori del decennale di Repubblica.it vi si leggeva “Ogni volta che ho avuto bisogno di sapere, voi eravate lì ad informarmi!”, “Mi consentite di avere ogni istante la notizia più importante”. Ma a giorni in occasione dei 20 anni cosa leggeremo? E’ possibile: “L’ho visto su Facebook”, “Ho letto ora un tweet che diceva…”
Quindi secondo lei i media tradizionali hanno le ore contate?
No, assolutamente. Ritengo soltanto che il valore dei media tradizionali, degli editori che pubblicano sia sulla carta che sul web con il supporto di giornalisti, non siano più le breaking news perché i social media hanno la capacità di raggiungere più rapidamente gli utenti, lì dove addirittura la notizia dell’ultimo minuto la fanno loro stessi, basti ad esempio pensare al caso del terremoto dello scorso agosto. Diverso invece per gli approfondimenti, è lì che si dovrebbe concentrare il lavoro del giornalista, che rimane l’unico professionista di un’informazione “certificata”.
In questo panorama, come si sono evoluti i sistemi di monitoraggio dei media tradizionali, quali ad esempio la rassegna stampa?
Con l’avvento di sempre più performanti tecnologie anche i sistemi di monitoraggio dei media si sono evoluti. Al di là del fatto che oramai tutti i player del settore monitorano tutti i media, quindi dal concetto di rassegna stampa si è passati a quello di media monitoring, sono proprio i metodi e le tecniche di rilevazione che sono cambiate. Basti pensare al monitoraggio radiotelevisivo che oggi si avvale di software di speech-to-text, ovvero di quei sistemi automatici di conversione del parlato in testo che permettono quindi di individuare una determinata citazione audio di un cliente, come fosse all’interno di un articolo testuale.
E la Media Intelligence, invece, se ne sente parlare, ma cos’è?
La Media Intelligence si applica prevalentemente sulle fonti digitali in quanto la mole dei dati è enorme. Sto parlando di quello spaccato dei big data presente nei web site, nei blog e nei social network, dove la raccolta di informazioni, filtro, elaborazione e analisi permette, in seguito a clusterizzazioni, di redigere report utili per l’ottimizzazione delle linee guida di gestione a livello strategico sia per la comunicazione che per il marketing.
Una sorta di ricerche di mercato sulle fonti digitali. Quindi è utile anche per ricercare digital influencer, visto che oggi non si parla di altro?
Sì certo, a volte viene utilizzata anche in tal senso. In questi casi non viene ovviamente ricercata una o più parole che rappresentano un’azienda o un prodotto, bensì tutto lo scenario di appartenenza, ove vengono identificati i personaggi con una influenza rilevante.
Lei crede che il numero di followers sui social media possa di per sé rappresentare un indice di influenza reale?
No, proprio per questo si utilizzano determinati sistemi che permettono di identificare, non solo chi sono coloro che parlano di un determinato argomento e che hanno un grande numero di followers, ma anche come ne parlano e quale è il livello di engagement che hanno i loro messaggi. Mi spiego: se quello che ho individuato come social influencer ha trentamila followers e quando scrive ha pochissimi share, commenti e like, vuol dire che nonostante la sua portata di impression sia potenzialmente alta, è possibile che la reach sia stata invece bassa o che comunque il contenuto che scrive non è poi così interessante.
Può raccontarci un caso pratico di un suo cliente (ovviamente senza nominarlo) per cui ha utilizzato tecniche di influencer marketing?
Che un Digital PR utilizzi degli influencer in una campagna è un dato di fatto, però quando la campagna viene concepita bisogna tenere conto che è fondamentale progettarla affinché venga coinvolto l’utente, il cliente, altrimenti diventa una campagna a favore dell’influencer. Ad esempio, per un cliente ho sfruttato la ricorrenza della data di fondazione della società progettando una specifica campagna hashtag che ne ribadiva gli auguri. Per la riuscita era fondamentale il coinvolgimento diretto dei follower e sono stati così invitati a cambiare sui propri profili Twitter la data del proprio compleanno, affinché ognuno venisse beneficiato dei palloncini che il social network omaggia il giorno dell’anniversario. Ovviamente per la riuscita del tutto, anche il supporto di determinati social influencer è stato fondamentale, ma lo scopo era far sentire speciali i follower della società.
A volte, nel corso di una attività digitale, possono crearsi i presupposti per una crisi reputazionale. Quali sono a suo avviso le buone prassi per la gestione di una crisi di web reputation?
Sostengo che di fatto la reputazione di un’organizzazione o un individuo sia una sola, indipendentemente dall’essere online o meno. Pertanto pur citando personalmente più volte la web reputation e insegnandola anche presso la scuola di Digital Coach, in qualche maniera ne forzo il concetto base poiché ritengo che la web reputation sia meramente la traslazione nel digitale della nostra unica reputazione, come insieme di opinioni, aspettative e percezioni degli stake-holder. Se i miei biscotti vengono messi in commercio bruciati, la mia reputazione si incrinerà ovunque, non solo nel digitale dove presumibilmente i clienti si scateneranno. Compreso questo, per una buona gestione di una crisi, la questione fondamentale è averla già prevista. Sapere quando avverrà è praticamente impossibile, ma un lavoro di insieme fra lo staff di comunicazione e marketing, il top management e la direzione operations diviene basilare per simulare innumerevoli casi di crisi affinché venga redatto un documento di “crisis management policy”, che in caso di necessità conterrà tutte le istruzioni del caso. E’ un po’ come avere un vademecum per l’evacuazione in caso di incendio redatto dopo diverse esercitazioni di falsi allarmi. Se non si prevedono più casi di crisi e se non ci si allena, se mai capiterà, ci si troverà sicuramente impreparati.
Quali sviluppi futuri possiamo aspettarci relativamente alla scena delle Digital PR e più in generale dalle Relazioni Pubbliche?
Ritengo che le Relazioni Pubbliche abbiano già preso un nuovo percorso e anche coloro che si ritengono tradizionalisti in realtà sono già digitali, se non per altro perché utilizzano computer, smartphone, tablet, mandano e-mail ai loro interlocutori, probabilmente li contattano anche con Whatsapp. Coloro che si occupano di Relazioni Pubbliche, più in generale di Comunicazione, solitamente trattano con un pubblico di professionisti, ad esempio i giornalisti, almeno per chi si occupa di media relation. E su questo, il fatto che oltre ai giornalisti, oggi ci si interfaccia con blogger e social influencer non cambia di molto il metodo di fare PR. Il vero cambiamento invece è nell’iniziare a parlare con gli utenti finali. Gli uomini di comunicazione non ci sono abituati, i metodi e le modalità di approccio sono completamente diversi. La democratizzazione digitale ha permesso a chiunque di dialogare con il Presidente di uno stato, con un’Amministrazione Pubblica, con un’azienda, con la propria squadra del cuore, pertanto il Digital PR dovrà studiare nuove modalità di interazione con i suoi interlocutori, che non saranno più solamente dei professionisti del settore.