scandali social sos digital prQuando si cerca giustizia sui social ancor prima che in tribunale

L’ultimo grande scandalo mediatico arriva dagli Stati Uniti e sui social impazzano già video a riguardo di ogni tipo: il rapper e produttore discografico Sean Combs, conosciuto perlopiù come P. Diddy o Puff Daddy, è stato arrestato a seguito di pesanti accuse per traffico di esseri umani, violenze sessuali e, secondo le illazioni più estreme, mandante degli omicidi più conosciuti della storia dell’hip-hop americano, quelli di Notorious B.I.G. e Tupac.

Neanche il tempo di dare la notizia e praticamente ovunque è possibile trovare contenuti che cercano di fare ordine sul caso, ripercorrendo una serie di eventi cominciata negli anni Novanta e che coinvolge grandi nomi dell’industria musicale e dell’intrattenimento. Uno schema che si è già ripetuto più volte e che ormai vede i social media come piazze in cui discutere su cosa sia la vera giustizia, perlopiù fallendo nel definirla ancor prima che nel trovarla.

LE AULE DI TRIBUNALE SONO IL TEATRO DI UN NUOVO TIPO DI INTRATTENIMENTO

Poiché le accuse a P. Diddy e la narrazione che si sta creando attorno alla sua figura ricordano un altro caso che fece scalpore anni fa, quello che coinvolse Jeffrey Epstein, c’è da aspettarsi che il processo cui andrà incontro il rapper sarà seguitissimo e commentato nei dettagli tra TikTok riassuntivi e live streaming lunghe ore.

Una dinamica con un altro grande precedente, ovvero la diatriba tra Amber Heard e Johnny Depp: interrogatori alla sbarra, presentazione delle prove e arringhe furono trasmessi worldwide, portando a un’ondata indicibile di contenuti che spaziavano dai momenti più ridicoli e grotteschi (e nel mirino ci finivano tutti: i due protagonisti, gli avvocati, i testimoni…) alle affermazioni più serie di ciò che era accaduto. E, alla fine di tutto, su Netflix è stata raccolta ogni cosa in un documentario.

Perfino in patria abbiamo un caso eclatante venuto a galla nelle ultime settimane, ancora non risolto ma abbastanza grave da portare alle dimissioni un ministro della Repubblica. Anche qui non sono stati risparmiati meme, screenshot, puntate dedicate di programmi tv e video di spiegazione sulla questione, per cercare di capire chi dice la verità e da che parte sia la giustizia.

Grazie alla forza mediatica dei social e all’interesse smisurato di una buona fetta di pubblico per il genere d’inchiesta e il true crime (secondo una ricerca realizzata da NielsenIQ per Audible, rispettivamente il 36% e il 29%, per quanto riguarda solo gli ascoltatori italiani di podcast), i tribunali non sono più solo luoghi in cui si esercitano le leggi ma anche mura imponenti tra le quali si mettono a confronto le vite delle persone, con esperienze che nessuno al di fuori altrimenti conoscerebbe.

Sempre su TikTok, da tempo vengono ricondivisi spezzoni di vari programmi televisivi, tra cui quelli girati in aula con casi più o meno reali. Se in America hanno “Judge Judy” e “Caught in Providence”, in Italia ovviamente esistono “Forum” e “Un giorno in Pretura”. Oggi, grazie ai live streaming, si porta il pubblico direttamente all’interno di grandi udienze con al centro personaggi famosi.

È anche grazie a questo fattore, forse, che il distacco dell’audience social si fa ancora più grande e spietato: se i contendenti fanno parte del mondo dell’intrattenimento, sono già per loro scelta sotto i riflettori, dunque è percepito come del tutto normale speculare su qualsiasi cosa li riguardi, trattando colpevoli e vittime allo stesso modo e come fossero stati messi lì apposta per dare spettacolo.

Aldo Grasso, Professore ordinario di Storia della radio e della televisione alla Università Cattolica di Milano e critico televisivo del Corriere della Sera, parlava proprio di questo in un articolo di ormai vent’anni fa per il sito della Polizia di Stato, oggi ancor più attuale:

“La trasmissione di un processo in televisione non è il resoconto fedele di un processo, ma la sua spettacolarizzazione. […] Il processo in televisione equivale a un ulteriore processo; vuol dire visibilità esaltata dallo schermo, gogna e berlina, punizioni estranee all’ordinamento giuridico italiano. […] Così i media favoriscono l’attacco dell’emozione alla giustizia e rischiano di reintrodurre nel cuore dell’individualismo moderno metodi tribali”.

TEMI ETICI, SOCIALI E POLITICI SOTTO IL METRO DI GIUDIZIO DEI SOCIAL

Ma il potere dei social va anche oltre e questo senso di giustizia si attiva in un dibattito di scala perfino internazionale, per stabilire chi è nel torto e chi ha ragione in quello che diventa un calderone di informazioni senza capo né coda.

L’ovvia conseguenza di un tale circo mediatico è la diffusione estrema di fake news e fake content: tornando al caso P. Diddy, ad esempio, nel cercare segnali nascosti su quel che accadeva durante i suoi fantomatici Freak Offs, gli utenti hanno cominciato a interpretare non solo le barre più esplicite delle canzoni di altri rapper che apparentemente denunciavano in tempi non sospetti gli eventi in corso, ma anche canzoni di artisti che potrebbero aver subito degli abusi. Il più citato, in tal senso, è Justin Bieber, che conobbe Sean Combs da giovanissimo e di cui ora girano clip di interviste e momenti che, per qualcuno, volevano essere richieste di aiuto.

La verità però rimane ancora un mistero, specialmente quando emergono contenuti creati ad hoc come una canzone fatta con tutta probabilità con l’IA usando la voce di Bieber. Per non parlare delle lunghe liste di nomi, diffuse senza alcuna fonte, che avrebbero partecipato alle feste del produttore e che teoricamente sapevano cosa succedeva in quelle più private.

Inizia così una sorta di caccia alle streghe che però risponde più a un istinto di massa “animalesco” che a un vero desiderio di giustizia e di discussione su temi delicati. Le persone si dividono in fazioni, con hashtag tipo #TeamJohnny e #TeamAmber, e analizzano i minimi dettagli spesso credendosi parte di una giuria.

I contenuti migliori che vengono fuori da questo caos digitale sono analisi critiche o spunti di riflessione che alcuni creator declinano in base al loro campo di appartenenza, e forse questa è l’unica nota positiva che può uscire da queste circostanze. Si va da spiegazioni oggettive sulle dinamiche di un processo e dei diversi “personaggi” al suo interno, commentari dal punto di vista psicologico e ovviamente approfondimenti e discussioni sulle diverse tematiche in ballo. Purtroppo una buona parte di questo tipo di contenuto viene sommersa dalle urla di chi chiede giustizia ma non è disposto ad ascoltare qualcosa che duri più di un minuto e mezzo.

IL RUOLO DELLE PIATTAFORME: MODERAZIONE DEI CONTENUTI E CONTRASTO ALLA DISINFORMAZIONE

Le piattaforme social si trovano a un bivio cruciale. Da un lato, sono strumenti potenti per la comunicazione e la condivisione di informazioni, dall’altro sono diventate terreno fertile per la diffusione di notizie false, disinformazione e hate speech. Questo solleva interrogativi fondamentali sulla loro responsabilità.

Sono le piattaforme semplici intermediari, passivamente ospitanti i contenuti generati dagli utenti, o hanno un ruolo attivo nella gestione di ciò che viene pubblicato? La risposta non è semplice. Da un lato, la sezione 230 del Communications Decency Act negli Stati Uniti ha protetto a lungo le piattaforme dalla responsabilità per i contenuti pubblicati dagli utenti. Dall’altro, la crescente consapevolezza dei danni causati dalla disinformazione ha portato a un dibattito sulla necessità di una maggiore regolamentazione.

Le piattaforme hanno adottato diverse misure per contrastare la disinformazione, come l’etichettatura delle notizie false, la rimozione dei contenuti violenti e l’introduzione di algoritmi che limitano la diffusione di informazioni non verificate. Tuttavia, queste misure sono spesso insufficienti e presentano spesso la difficoltà di definire oggettivamente cosa costituisca una notizia falsa, la necessità di bilanciare la libertà di espressione con la lotta alla disinformazione, e il rischio di censura.

Gli algoritmi inoltre sono il fattore che determina quali contenuti mostrare agli utenti, in base a una miriade di variabili, tra cui le interazioni passate, le amicizie e gli interessi. Questa personalizzazione, pur avendo vantaggi in termini di rilevanza dei contenuti, può avere effetti collaterali come la creazione di echo chambers, ovvero ambienti online in cui gli utenti sono esposti solo a informazioni che confermano le loro opinioni preesistenti.

Mostrando contenuti simili a quelli che già apprezzati, la polarizzazione delle opinioni è la naturale conseguenza in contesti come quelli giuridici, ormai alla mercé di queste piattaforme. E come si può pensare che queste non influenzino anche le decisioni della corte?

CONCLUSIONE

I social media hanno democratizzato l’accesso all’informazione, ma hanno anche creato un terreno fertile per la diffusione di notizie false e di opinioni preconcette. Sta già avvenendo, di fatto, una progressiva erosione della fiducia verso le istituzioni ma anche verso i mezzi di informazione più tradizionali, a favore di metodi più rapidi e fai-da-te che possono portare molto più facilmente a strumentalizzazioni e manipolazioni

La spettacolarizzazione dei processi giudiziari rappresenta quindi una sorta di perversione del diritto alla conoscenza a cui bisogna fare particolare attenzione, poiché rischia di trasformare la giustizia in un mero spettacolo, di allontanare il pubblico da temi sociali ed etici rilevanti e di ridurre tutto in puro content senza pietà.

 

Alessia Trombini