Virtual influencer: nuova frontiera dell’influencer marketing
Secondo Il Sole 24 ore, circa 350mila persone in Italia possono definirsi influencer. Sicuramente questo numero non fa che aumentare di giorno in giorno e tra le loro fila si aggiungono anche alcuni virtual influencer: personaggi non reali, ma generati in 3D e gestiti da gruppi di specialisti del marketing.
Un fenomeno che nasce in un’epoca in cui si parla di Metaverso e Avatar con toni contrastanti, tra chi li considera un futuro molto prossimo e chi invece qualcosa di ancora lontano, soprattutto perché ne possa usufruire anche la massa.
Eppure queste personalità virtuali già esistono e interagiscono col mondo reale. Che siano una minaccia per gli influencer reali o invece una nuova opportunità per le aziende e la loro comunicazione?
Nasce, cresce e… promuove
Sembra essere prassi, in alcuni casi, spiegare in qualche modo la venuta al mondo di un virtual influencer. Le agenzie studiano la creazione di un personaggio in tutto e per tutto, dal suo aspetto fino a un suo possibile background di interessi e capacità, per attrarre l’attenzione di un pubblico affine. I loro primi post allora raccontano la loro nascita nel mondo virtuale, parallelo alla nostra dimensione, nella quale questi “individui” hanno deciso di introdursi per esplorarla, come a volerne comprendere differenze e similitudini con la propria.
Così comincia la loro vita da influencer, al pari delle controparti in carne e ossa, con post dedicati alle attività e ai brand con cui collaborano e modalità non tanto diverse. Allora perché le aziende, specialmente marchi di moda o del settore lifestyle, cominciano a preferirli agli influencer “tradizionali”?
Certamente offrono una buona costanza: il loro aspetto non è soggetto ai segni del tempo ma può cambiare all’occorrenza, mantenendo un senso di realismo apparente (tutti cambiamo almeno acconciature e vestiti, no?). Non esistono tempi morti e la creatività quasi non ha limiti, se non quelli della tecnologia utilizzata; inoltre la presenza fissa sulle piattaforme social garantisce la possibilità di raggiungere un pubblico vastissimo. E questo, pur sembrando un punto a favore, in realtà è solo il primo di diversi altri considerabili negativi.
Il “lato oscuro” dei virtual influencer
Quelli appena elencati sono i primi aspetti cui si pensa quando si valuta di includere o meno un virtual influencer in una campagna di marketing speciale. Tuttavia, bisogna anche considerare altri punti di vista, a cominciare dal più venale, cioè il loro mantenimento, che richiede un team tecnico che si occupi del loro sviluppo che, secondo la visione del capo creativo Stan Lim della Dentsu Singapore (che ha creato la propria virtual influencer di nome Rumi), è un compito paragonabile ad “accompagnare un giovane adulto attraverso la sua vita”.
Un concetto che può risultare impressionante, parlando di qualcosa generato al computer e comandato da un’apposita squadra di esperti. Anche volendo accettare questa concezione, ricordiamo come li abbiamo definiti all’inizio: dei personaggi, personalità costruite ad hoc, con tratti spesso generici e, pur tentando di integrarli nel mondo reale, perfino le loro attività quotidiane suscitano reazioni spiazzate e confuse.
Basti osservare alcuni dei più famosi a livello internazionale, in primis Lil Miquela (+2.5M di follower su Instagram), Imma o Shudu: i loro post sono poco dinamici e simili a quelli di altre modelle, macinano like ma pochi commenti in proporzione, la metà dei quali sono osservazioni e domande sulla loro identità virtuale, ignorando completamente i tentativi di dialogo e le call to action.
Insomma, potranno anche raggiungere un grande pubblico, superando anche le barriere linguistiche (Imma ad esempio scrive sia in inglese, che in giapponese), ma il problema maggiore è che stimolano perlopiù stati di preoccupazione e perplessità e poca curiosità per ciò che raccontano o promuovono, che siano prodotti, eventi o uno stile di vita.
I virtual influencer sono un po’ scarsi per le Digital PR?
Una domanda dunque sorge spontanea: cosa sono effettivamente in grado di fare per l’immagine di un’azienda?
Come si evince dal report di Influencer Marketing Hub sui virtual influencer, la prima cosa che risulta molto chiara è che, come per quelli reali, un numero di follower enorme non equivale per forza a un altissimo engagement rate, né un’alta conversione in vendite. Inoltre, fa molta differenza la nicchia di riferimento ed è palese, nel loro caso, una predilezione per tutto ciò che riguarda la bellezza e l’intrattenimento.
Da qualcuno, i virtual influencer sono stati definiti addirittura “ambassador”. Nelle Digital PR, il brand ambassador si distingue dall’influencer per la sua attività di vero e proprio rappresentante dell’azienda. Se un influencer parteciperà a singole campagne studiate in un certo modo e di durata prestabilita, un ambassador ha un ruolo molto più strategico in termini di comunicazione, perché incarna valori e identità del brand che lo ha scelto.
Questi virtual influencer, per loro stessa natura, non sono davvero in grado di un tale livello di immedesimazione, che si costruisce grazie a creatività e capacità di relazionarsi sia con l’azienda che con il pubblico. Dunque è tecnicamente scorretto quantomeno definirli ambassador. Il dubbio viene anche sul definirli influencer, data la poca attenzione riservata al pubblico rispetto agli influencer umani, che curano molto di più il rapporto con i propri follower.
Per quanto gli influencer non abbiano come obiettivo la mera vendita, quello che sono in grado di fare e che dovrebbe interessare alle aziende è la capacità di costruire una community, con cui si rapportano in un’attività costante e importante per creare il legame emotivo fra il creator e la sua audience, che lo seguirà per la naturalezza dimostrata.
Se i virtual influencer non sono in grado di aiutare a sviluppare una community, allora potranno almeno contribuire alla reputazione di un’azienda? Non è detto. L’amministratore delegato di Hylink USA Humprey Ho, che ha contribuito a creare la virtual influencer Aimee, afferma che uno dei più grandi benefici di questi personaggi è il controllo che si può esercitare su di essi, abbassando il rischio di crisi reputazionali, cui sono molto più soggetti i normali influencer, specialmente nei casi di collaborazioni con brand di alto livello.
Per quanto possa essere vero al 99% (ad esempio, proprio Lil Miquela ha ricevuto accuse di queerbaiting, per un bacio insieme alla famosa supermodella Bella Hadid), ciò non farebbe che mettere un’ulteriore distanza fra “noi” e “loro”. Un essere perfetto non può trasmettere la stessa fiducia di un influencer reale, né risulterà autentico, in quanto troppo perfetto e privo di una vera conoscenza dei propri follower.
A chi possono servire i virtual influencer e quale sarà il loro futuro?
I settori che finora hanno provato a elaborare campagne con virtual influencer, come detto in precedenza, sono stati principalmente quelli della moda e del lusso in generale, poiché consentono di dar fondo alla fantasia per realizzare nuovi concept visivi.
Nonostante la presenza di cibo o cosmetici nei loro post, infatti, è difficile per le aziende di queste e altre categorie pensare di coinvolgere influencer virtuali nei propri piani di marketing, per ovvi motivi.
L’intrattenimento, però, è forse il settore più redditizio e interessante per utilizzare i virtual influencer. Esistono già degli esempi anche ben riusciti di personalità virtuali usate per progetti cross-mediali: la Riot Games, casa di produzione di League of Legends (uno dei videogiochi online più giocati al mondo), ha dato origine a gruppi musicali come le K/DA per promuovere nuove skin per i personaggi in-game; lo stesso è accaduto già in passato con Hatsune Miku, idol giapponese che altro non è se non la personificazione di una voce prodotta con un sintetizzatore; su YouTube impazzano i VTuber, cui aprì la strada a suo tempo Kizuna AI.
Tornando al concetto di brand ambassador, inoltre, i virtual influencer potrebbero e dovrebbero anche rendersi rappresentanti di messaggi incisivi e di interesse comune, portati avanti dalle aziende più decise a fare la differenza, superando la superficialità che molti di loro emanano e facendosi carico quindi di importanti cause. Finora è successo in qualche caso ma senza una particolare continuità o rilevanza mediatica.
L’applicazione dei virtual influencer e di tutte le tecnologie che vi ruotano attorno, comunque, ha ancora infinite possibilità, ma prima c’è un lavoro di “cultura” da compiere: al momento sono soprattutto alcuni Paesi dell’APEC a credere nelle potenzialità di questo nuovo modo di comunicare e potrebbero essere sviluppate in futuro nuove idee ed esperienze capaci di ridurre la sensazione di diffidenza che invece c’è ancora soprattutto in Occidente.
I virtual influencer sono già presenti anche in Italia: Nefele, che i suoi creatori hanno pensato potesse divenire una “ambasciatrice dei concetti di diversità”; Zaira, che ama dialogare soprattutto con la Gen Z; Wando, che aspira alla carriera di attore nel metaverso; le gemelle Eli e Sofi… Ognuno nato con idee e progetti diversi e ambiziosi.
Il loro percorso sui social però sembra sarà molto lungo e per diverso tempo non coinvolgerà sicuramente aziende di piccole e medie dimensioni, sia per i costi che per l’effettiva utilità di questo trend per determinati business, che potrebbero desiderare semmai ciò che i virtual influencer, al momento, non sono in grado di offrire. Sarà interessante vedere come si evolverà la loro popolarità in questo senso e se saranno in grado di cambiare più o meno radicalmente la cultura e la società nel lungo termine.
Alessia Trombini