Mai come in questo periodo si sente parlare di bufale, di fake news. La motivazione trascinante di tale attenzione alle false notizie è stata la bagarre post elezione del presidente americano; ma anche qui nello stivale, con la diatriba soprattutto post referendum, non siamo sicuramente da meno.
Le motivazioni rispondono a due ragioni, la prima è di natura economica: in questo sistema ci guadagna chiunque abbia introiti dalla pubblicità generando traffico di utenti sui propri siti web, social media inclusi.
La seconda è strategica: produrre falsa informazione è un modo per attirare l’attenzione su determinate problematiche invece che altre, denigrare un concorrente, convincere il pubblico di una situazione piuttosto che di un’altra. È chiaramente un aspetto, senza etica, delle Digital PR e di apposite strategie di comunicazione digitale.
Google, Facebook e Twitter hanno iniziato a darsi da fare perché chiamate in causa per via delle elezioni presidenziali nel loro paese, ma fino a quel momento ci hanno guadagnato con tale tipo di traffico… e continuano a farlo, nonostante, da più parti, sia stato invocato un loro intervento per arginare il fenomeno.
E se ci si rivolgesse solo ai professionisti di notizie per informarsi, quindi ai giornalisti? Sarebbe una grande opportunità per loro.
In passato si è pensato di applicare un bollino ai siti di chiara fonte giornalistica, anche se qualcosa di simile esiste già in Italia, con l’obbligo dell’iscrizione al Tribunale. Questa soluzione, però, danneggerebbe tutti quei siti e blog che non hanno una pubblicazione regolare ma che comunque, nel loro mondo, fanno informazione più che qualificata.
Anche sul versante istituzionale ci si sta muovendo: ad esempio è al vaglio dell’Agcom uno strumento per combattere le bufale online con l’estensione del diritto di rettifica dalla stampa al web. L’idea può essere buona, ma se il sito in questione è di matrice estera, scritto in lingua italiana e diffuso agli utenti italiani dei social, come si può fare? La questione non si risolve con iniziative solo italiane.
Il concetto è che oggi la notizia la fa anche l’utente o comunque è un attore primario per la sua distribuzione. Gli editori e i giornali non hanno ben compreso il fenomeno della democratizzazione digitale, così come non hanno capito il fenomeno della disintermediazione, altrimenti gli attacchi a blogger e social influencer da parte loro non ci sarebbero.
Allora il nostro suggerimento, in attesa che qualcuno possa legiferare a livello planetario, eventualità piuttosto improbabile, e che i social media possano mettere dei blocchi, cosa invece fattibile, è che i giornalisti continuino a fare il loro mestiere rispettando il dovere di cronaca e la deontologia professionale, comprendendo che il loro lettore non è più solo un cliente del proprio editore, ma anche un collega… quasi.
Enzo Rimedio